romanzo di golf
Processo nel golf club
L’avvocato Rosario Di Carmine ancora non si vedeva ed un diffuso nervosismo cominciava farsi palese, tra le quattro-cinque persone che lo aspettavano. Le ripetute e inutili occhiate all’orologio contagiarono un po’ tutti.
Era ovvio che senza di lui non si poteva procedere, ma tentare di contattarlo era fatica sprecata, visto che il suo cellulare rimandava la consueta voce femminile che cinguettava: “Il cliente non è al momento raggiungibile. Il suo cellulare potrebbe essere spento. Si prega di richiamare più tardi.”
L’unico che ostentatamente non dava cenni di impazienza era Leonardo Castro. Anzi, per dimostrare di trovarsi perfettamente a suo agio, nel sorseggiare il suo aperitivo, a gambe accavallate e schiena accuratamente adagiata all’indietro, sullo schienale del divano, chiese al barman di portargli un altro po’ di patatine e noccioline salate. Conversava amabilmente, come al solito, con chiunque gli capitasse a tiro; tanto gli argomenti non gli venivano mai meno, pur senza mai approfondirli, ma esprimendo posizioni che difficilmente non si sarebbero condivise.
Era il tipo di persona, tanto per farla breve, alla quale non si sarebbe mai tolto il saluto. Educato, alla mano, spiritoso quanto basta, senza mai essere volgare.
Figura ideale in un circolo di golf, si direbbe, anche per il “physique du role” con quello sguardo e quella mascella vagamente da attore hollywoodiano, e poi con quel nome che poteva figurare in una locandina di un film degli anni ‘30. Ma ideale in qualsiasi ambiente istituzionalmente frequentato, tanto da far ritenere che anche nel suo habitat privato avrebbe dispensato quel tanto di trascinante fascino che alla fine ti fa vedere il bicchiere sempre mezzo pieno.
Eppure…
Eppure la sua presenza lì, in quella giornata ed in quella sala della Club House, alla presenza di pochi altri soci, aveva un senso solo in quanto anche l’avvocato Di Carmine si fosse finalmente degnato di farsi vivo.
Perché lui era l’imputato e l’avvocato sarebbe stato al tempo stesso pubblico ministero e giudice. Conflitto d’interessi? Boh! Fate voi.
Doveva essere semplicemente una riunione della commissione di disciplina sportiva del Circolo, per esaminare il caso Leonardo Castro.
Quando finalmente anche l’ultima patatina sparì dalla ciotola che affiancava l’aperitivo, quasi a concludere una proficua giornata, Leonardo alzò quasi di controvoglia il polso sinistro all’altezza dello sguardo ceruleo per constatare “Ma guarda come si è fatto tardi!” con l’aria di chi si appresta a togliere il disturbo.
In quel preciso momento, con la sua solita camminata trafelata, all’ingresso della sala apparve l’avvocato, con la sua solita giacca sbottonata per fare posto ad uno stomaco sempre più invadente, ed il suo solito lembo di camicia fuori dai pantaloni.
“Scusatemi, sono imperdonabile!” Ed aggiunse, col solito cantilenante accento siculo, la solita plausibilissima e perdonabilissima, ma ben poco credibile, causa del ritardo, che stava per far saltare la riunione. Il solito fortuito intoppo alla cancelleria del tribunale, un tecnicismo difficile da spiegare ai non addetti ai lavori.
Senza eccessivi preamboli, si avviò la riunione.
Si erano già seduti tutti quando, dopo essersi infilato per l’ennesima volta la camicia dentro i pantaloni, si sedette anche lui, senza nemmeno sfiorare la spalliera, e con gli occhiali già puntati sul primo dei due fogli che teneva con entrambe le mani.
“Allora, ascoltata la testimonianza del sig. Silvestri e del sig. Toniolo” si schiarì la voce, “entrambi assenti giustificati, il giorno 28 maggio scorso, nel corso della gara disputata in questo circolo, Leonardo Castro è stato visto alzare la palla da una posizione di rough evidentemente poco giocabile, e risistemarla in prossimità della posizione originaria, ma ben più sollevata e, quindi ben più giocabile, traendo, dunque, un illecito vantaggio, tanto da far chiudere la buca con un par che sarebbe stato del tutto improbabile se la palla fosse stata giocata dalla posizione corretta.”
“Obiezione!” fece pacatamente Leonardo, con la sua postura di chi si trovasse lì per caso, e traendo una prolungata boccata dal suo sigaro.
“Accolta!” bofonchiò l’avvocato, alzando gli occhi sopra le lenti, come se si aspettasse l’interruzione.
“Oh! Oh! Ma se è una puntata della serie di Perry Mason, durerà almeno altri cinquanta minuti” bisbigliò Lorenzo Bellani all’orecchio di Paolo Pozzato, ma in modo tale da farsi sentire. Erano gli altri due membri della commissione, il primo di una magrezza quasi anoressica, alla quale faceva da contraltare una enorme capigliatura afro, il secondo con le gote rubizze e gonfie, come se avesse appena ingurgitato due bigné con un solo boccone.
“Insomma, ammetti si o no, di avere alzato la palla dalla posizione originaria, mentre si trovava nel rough?”
“Certo che lo ammetto!” disse, sempre imperturbabile Leonardo Castro.
“E allora non c’è nulla da aggiungere. La squalifica è automatica.” Concluse l’avvocato Di Carmine, con gli occhietti fissati in rapidissima successione sull’“imputato” e sugli altri due membri della commissione, come per raccoglierne l’assenso. Per la verità gli risultava più facile indugiare sul faccione godurioso di Pozzato.
“Si, ho alzato la palla, ma solo per accertarmi che si trattasse della mia. Non potevo riconoscerla, infossata com’era, e poi l’ho riposta dove l’ho trovata!”
Colpo di scena? Manco per sogno!
L’avvocato, vecchia volpe, evidentemente si aspettava la difesa che, tutto sommato, era ben poca cosa.
“Mi dispiace, ma questo non cambia nulla! Avresti dovuto chiamare il tuo marcatore, ed eseguire con lui l’operazione, in modo tale che fosse certo che non avresti tratto alcun vantaggio dallo spostamento e riposizionamento della palla. Basta vedere le regole” (che, nel suo dialetto, divennero lerrègole).
Per la prima volta Leonardo cambiò espressione e sembrò accusare il colpo.
“Si, eravamo in gara, ma ho fatto come si fa tra amici, quando ci giochiamo la bevuta. E poi non sono scorretto, io!”
L’avvocato tacque qualche istante, in bilico tra chiudere tutto a tarallucci e vino, o sanzionare il sig. Castro come era giusto che fosse, per avere infranto, con tanto di ammissione, le regole (lerrègole). E, visto che era lì a fare il presidente della commissione, alla fine optò per quest’ultima soluzione, magari con una sentenza che tenesse d’occhio la buona fede di Leonardo. Insomma, le buone, vecchie, attenuanti generiche.
“Allora, se nessuno ha nient’altro da dichiarare, rimane la squalifica per la gara, e, tenuto conto dell’ammissione che abbiamo ascoltato, non si procede a nessun’altra ulteriore sanzione. In fondo si tratta di una mancanza frequente e deplorevole, ma bisogna dare atto di un comportamento in buona fede e di persona a noi tutti nota per la sua educazione e correttezza”.
Bellani e Pozzato si guardarono per qualche istante negli occhi e parve che uno di loro due avrebbe alzato il dito per dire qualcosa. Ma la pausa fu troppo lunga, ciascuno forse pensando all’intervento del collega, sicché nessuno alla fine disse nulla. Ed a verbale non si registrò nient’altro.
La riunione si sciolse, per raccogliersi nuovamente al bar. Offriva Leonardo Castro. Lo stile non è acqua.
“Beh! Se ho sbagliato è giusto che paghi. Peccato, perché avrei vinto il premio di categoria! Ma alla fine è bene essere inflessibili, specie per quelli che rubano regolarmente, in perfetta malafede! Non ditemi che non ne conosciamo tutti perlomeno un paio di nomi e cognomi! Che nove volte su dieci la fanno franca e quando vengono pizzicati con le mani nel sacco hanno poi il coraggio di negare tutto! E allora, se si sbaglia, la si faccia pagare, senza guardare in faccia nessuno! Costi quel che costi! Sennò dove si va a finire? Altro che politica e politicanti!” sottolineò, moraleggiante.
E finì per catturare sguardi di ammirazione.
“Cosa posso offrirvi?”
Lorenzo Bellani, che poi era lo stesso che aveva quasi alzato il dito lungo e scarno per dire qualcosa, salvo che poi non aveva detto un bel nulla, al termine del “processo”, sentì ancora una volta la tentazione di obiettare qualcosa o, quantomeno di puntualizzare, per dare ascolto ad una sollecitazione che gli saliva su dallo stomaco.
Ma si limitò ad “Un caffè, per me, grazie!”
In fondo, tutto si stava ricomponendo nel modo più giusto.
Uno, l’avvocato aveva assunto la decisione più equanime, astenendosi dall’infierire con il paventato deferimento alla Federazione, ma confermando la sacrosanta squalifica.
Due, l’episodio aveva avuto il risalto che meritava e, almeno per un po’ di tempo, sarebbe stato un monito per i “furbi” che continuano a farla franca.
Poi, il “colpevole” era stato smascherato, anche se la mite sanzione era il riconoscimento del buon nome che si era costruito nell’ambiente e che, quasi paradossalmente, riusciva addirittura rafforzato dal pistolotto che, se fosse stato un programma elettorale, avrebbe riscosso consensi bulgari.
Ed infine, il clima di sano cameratismo tra i soci non era rimasto minimamente scalfito, e nessuno sembrava di doversi sentire in debito o in credito di qualcosa.
E allora cosa ci sarebbe stato da puntualizzare, salvo che poi nulla si puntualizzò?
Cos’è che frullava nel retrobottega della mente del nostro membro della commissione di disciplina sportiva? Insomma cos’è che non quadrava? E perché quel ditino finì per non alzarlo?
Il caffè, come al solito senza zucchero, gli corroborò il palato e le papille e per qualche magnifico istante fu l’esauriente risposta a quegli ingombranti quesiti.
Era poi veramente il caso di farsi venire il mal di testa per qualche centimetro d’erba in più o in meno? E meno male che non era stato chiesto un sopralluogo…
Distese le braccia incrociandole dietro la testa e cercò di intercettare lo sguardo di Leonardo Castro come alla ricerca di un indizio che dissipasse o, peggio, confermasse la fondatezza di quegli interrogativi che malauguratamente lievitavano minuto dopo minuto.
Finì per cedere: non gli andava di passare per fesso. Non riuscì a sopportare quei malcelati sorrisini di Leonardo, che avevano tutta l’aria di dire “Ve l’ho fatta ancora una volta! Vi tengo in mano come e quando mi pare!”
E dunque non seppe bene cosa gli avrebbe detto, ma gli avrebbe fatto capire a chiare lettere che Leonardo ed il suo finto perbenismo potevano avere messo nel sacco l’avvocato ed anche i suoi amici adoranti, ma per quanto lo riguardava, la sua storia non l’aveva bevuta. Altro che “Non sono scorretto, io!”
Lo avrebbe scalzato da quella trincea di occhiali da sole nella quale Leonardo si era rifugiato per non essere trafitto dalle raffiche di strali appuntiti con i quali lo avrebbe investito, sbriciolando la figura di cartapesta che si era costruito.
Improvvisamente tutto si delineò nella sua mente in una sequenza visiva e logica nella quale ogni dettaglio acquistava la posizione che gli competeva. A cominciare da quella zolla di erba da cui tutto era partito, ed ora rivendicava appieno la sua dignità da primo piano.
Allora, riprendiamo tutto dall’inizio. Ecco come si sarebbe dovuto svolgere, più o meno, l’“interrogatorio”.
Leonardo Castro aveva semplicemente alzato la palla perché da quel buco dove si era infilata non poteva riconoscerla? Aveva detto proprio così, giusto? E da quel buco in cui avrebbe dovuto riposizionare la palla era, sì o no, tecnicamente impossibile il colpo che gli aveva consentito il par? Lo dicesse con sincerità, quella che gli rimaneva. O non l’aveva deliberatamente e, quindi barando scientemente, rimessa in una diversa posizione, sopra il ciuffo d’erba, da cui aveva poi effettuato il colpo, ottenendo quel par che, come lui stesso aveva detto, gli avrebbe quasi garantito poi il premio di categoria?
Stavano o non stavano esattamente così le cose? Era o non era, il premio di categoria, dunque, talmente alla portata che non gli doveva sfuggire per nessuna ragione, anche se la sfiga, proprio in quel momento gli aveva infilato la palla in un buco, rendendola pressoché ingiocabile? E dentro di sé non si era detto che andasse a farsi fottere la sfiga, che c’è un rimedio a tutto, un rimedio, in fondo, di soli pochi centimetri di differenza?
Tutto questo Lorenzo stava per rovesciargli addosso, e forse anche qualcos’altro, alla faccia del “volemose bene”, e che se lo spendesse pure da qualche altra parte, quel sorrisino da divo hollywoodiano e quello sguardo mascherato dai Ray-Ban!
Si sentiva carico come un Kalashnikov pronto a far sentire la sua voce ed annientare tutto quello che gli si parava dinanzi.
Ma quello che accadde lo spiazzò del tutto. Non l’avrebbe potuto prevedere. Né tantomeno le conseguenze che si sarebbe portato appresso.
Col senno di poi, in fondo si trattò solo di una questione di tempismo.
Quello di cui si avvalse Leonardo per prenderlo da parte, con un braccio confidenzialmente infilato sotto il suo. Curiosamente, nel preciso istante in cui si diffusero i rintocchi della pendola che scandiva le quattro del pomeriggio.
Ma come, non doveva andare via, non si era fatto tardi?
Avrebbe dovuto intuirlo che c’era qualcosa di anomalo in quel gesto, anche perché non sanciva la normale conclusione di chissà quale intenso e cordiale scambio di argomenti tra loro due, né Leonardo si era mai lasciato, almeno con Lorenzo, ad un atteggiamento di una tale familiarità.
Ma, in fondo, quello era il personaggio, e non restava altro che prepararsi a coglierne l’ennesima, imprevedibile mossa, rimandando a migliore occasione la sua.
Questione di tempismo. Anche nel golf, il giusto “timing” faceva spesso la differenza tra un buon colpo ed una “flappa”.
A questo punto, cosa c’era da attendersi? Quantomeno, che Leonardo volesse aprire un varco nella sua diffidenza, che gli si doveva leggere negli occhi, a Lorenzo e, a suon di chiacchiere, arguzie, facezie e tutto il meglio del suo repertorio, lo facesse rientrare nel mucchio indistinto dei suoi ammiratori.
Ed invece, niente.
Non aprì bocca, ma trattenne il fiato per qualche lungo istante, quasi ad attendere un segnale convenuto, il “Ciak! Azione!” da cui far partire la sequenza di battute del copione mandato a memoria.
“Lo so bene che non ti ho convinto” alla fine esordì, senza staccargli il braccio dal suo “Non mi hai tolto un attimo gli occhi di dosso, e non certo per il mio fascino!” e abbozzò l’ennesima compiaciuta risatina.
“Di cosa parli?” fece Lorenzo, guardingo.
“Della mia squalifica, su, dai, di questo parliamo” continuò con voce pastosa ed impostata, come se il copione avesse previsto anche l’interferenza di Lorenzo.
“Ma siccome a parole non sono abbastanza convincente, e potrei aggiungere che sono io il primo a non tollerare che ci siano ombre e dubbi sul mio comportamento, e che sarei io stesso il primo ad essere inflessibile se avessi dubbi sulla correttezza dei miei compagni di gioco, fossero anche i miei migliori amici, voglio farti una proposta. E credo che ti interesserà.” Pausa, come da copione.
Come non abboccare?
“E sarebbe?”, sempre cauto, ma evidentemente curioso gli rimandò Lorenzo.
A questo punto Leonardo gli sfilò il braccio dal suo e gli si pose davanti e, dopo aver collocato i Ray-Ban nella custodia, gli infilò in mezzo agli occhi il suo sguardo malandrino.
“Domenica prossima c’è il torneo a coppie. C’è anche la finale all’estero. Che ne dici di farlo insieme? Io, alla fine, non sono proprio una schiappa e, se ci affiatiamo per bene, potrebbe anche scapparci qualcosa di buono. E forse finiremmo anche per conoscerci meglio. Insomma, volevo proprio farlo e tu sei la prima persona a cui ho pensato. Soprattutto per levarmi di dosso quelle tue occhiatacce. Sempreché, mi pare ovvio, tu non ti sia già accordato con un altro partner.”
“No. Non mi sono accordato con nessuno. E non ci avevo nemmeno pensato, al torneo” prese tempo Lorenzo.
Era ovvio che l’offensiva meticolosamente preparata era rientrata nei ranghi, se non addirittura annullata. Non aveva senso sferrarla in quel contesto che aveva preso una piega inaspettata.
Che figlio di puttana! Gli stava quasi diventando simpatico! Ma ci provasse a sgarrare! Anche solo ad arrivare con un minuto di ritardo! Gliel’avrebbe fatta pagare con gli interessi! Fino a non fargli più mettere piede, al circolo.
E questo, sia pure in termini più mitigati, glielo disse.
“Beh! Sai che ti dico? Mi sembra una buona idea. Ma provaci, a farmi fare brutta figura, e ti spacco le chiappe. Sai cosa voglio dire….”
Era, alla fine, una vera e propria dichiarazione di pace, i famosi tarallucci e vino, sia pure con la condizionale.
E proprio lui, Lorenzo, gli stava spianando la strada, lui che fino a pochi minuti prima era stato sul punto di sferrare l’attacco che l’avrebbe stanato e forse messo fine una volta per tutte alla sua carriera di baro sistematico e razziatore di premi di categoria. Ma, chapeau, bisognava riconoscere che Leonardo ci sapeva proprio fare e la sua brillante nomea se l’era costruita come solo chi è nato per saperlo fare, ne è capace.
E poi, perché no?, con uno come Leonardo, magari in buona giornata, l’ideuzza di una finale all’estero non era da sottovalutare, in fondo. Era un buon giocatore, ed anche un trascinatore. E’ vero che Lorenzo tornei non ne faceva da tempo, ma certamente valeva un handicap più basso di quello che avrebbe giocato, e questo non era un vantaggio da poco. Con l’intima speranza di essersi sbagliato sul conto del suo prossimo partner, insomma di essere stato troppo avventato nel giudizio malevolo.
“Magnifico! Allora ci penso io all’iscrizione. Partenza, la mattina presto, che ne dici? Ah! Per qualsiasi intoppo, chiamami sul cellulare. Il mio numero è…”
“Non ci sarà nessun intoppo. Va benissimo la mattina presto.” Ormai c’era dentro fino al collo, inutile farsi prendere da ridicoli ripensamenti. Pazienza, se si sentiva come se gli sfilassero il portafogli sotto il naso, senza nemmeno dire”Ah”.
E non poté prevedere che, ad un certo punto di quella fatidica domenica mattina, il bicchiere si sarebbe riempito del tutto. Nonostante una piccola disavventura.
Le cose andarono così.
Sarà stato per la tensione, per l’emozione, o per tutte queste cose messe insieme, oltre ad una giornata che si profilava storta, come spesso accade a chi gioca a golf, ma a Lorenzo pareva di non imbroccarne una. Tutto un campionario di rattoni, flappe e slice. Facile, poi, smontarsi, quando c’è in palio qualcosa da acquolina in bocca, e la vedi svanire quasi fin dall’inizio. Ma chi ci stava mettendo una pezza, e forse ben più di una, era, grazie a Dio, la vena ispirata di Leonardo.
Fino a che……
A farla breve, palla di Leonardo introvabile. Era stato un bel ferro 7 atterrato, però, in una zona del rough, con l’erba abbastanza alta. Da palla introvabile a palla persa, il passo sarebbe stato breve. E allora dài, a cercarla, entro i fatidici cinque minuti, su e giù, spostando zolle e foglie, alzando i ciuffi d’erba più fitti.
Lorenzo si sentiva quasi in dovere di trovarla, quella palla, quantomeno per dare un contributo al gioco di coppia che, fino a quel momento, lo aveva visto piuttosto latitante. E si sentiva sempre più in colpa, mano a mano che i minuti passavano e sembrava inevitabile doverla dichiarare alla fine persa, con il pesante aggravio per lo score.
Poi, quasi allo scadere del tempo, “Eccola! Trovata” esultò come un bambino Leonardo. Il sollievo naturalmente fu soprattutto di Lorenzo. Eppure c’era passato un attimo prima, proprio in quella zona, l’aveva perlustrata quasi centimetro per centimetro, e di una palla nemmeno l’ombra. Possibile?
E qui un clic nella sua testa cespugliosa, malgrado lo scampato pericolo, gli scattò quasi rumorosamente. “Mmmh! Vuoi vedere che…Insomma, ci risiamo?” Forse si accorse a malapena del brivido che lo attraversò. “Da dove spunta, adesso, quella palla? Vuoi vedere che gli è scivolata giù da un buco nella tasca dei pantaloni? Il lupo perde il pelo….” Si sentì perduto, incapace di decidere il da farsi, anche perché non sapeva bene cosa sperare, quando irruppe nell’aria un “Vaffanculo! Non è la mia!” che un istante dopo quasi lo rimise al mondo.
Era ancora la voce di Leonardo. “Palla persa!” aveva aggiunto con stizza.
Lo avrebbe abbracciato, nonostante la brutta notizia. Catastrofica, addirittura, per il torneo. Pazienza, si sarebbe giocata la sua, da posizione non certo ideale, ma il salvabile poteva essere salvato.
Che poi l’episodio avrebbe rappresentato una svolta, non era assolutamente preventivabile. Una delle inspiegabili alchimie che il golf sa produrre, nel bene e nel male, senza dover ricorrere ad una più corretta posizione delle spalle, ad una migliore rotazione dei fianchi o ad un ritrovato assetto e ritmo di gioco.
Succede, punto e basta, verrebbe da dire. Ma si trattava di un cambiamento di scenario che ripudiava da un momento all’altro quello spartiacque in perenne e sottile equilibrio che distingueva l’agonismo tangibile e virtuoso da quello mascherato e subdolo, e restituiva la gara al caleidoscopio del ludico e sensuale bisogno di esibirsi e di stupire se stessi ed i propri compagni di gioco con colpi di estemporanea magia.
A cominciare da quel putt da circa quindici metri imbucato miracolosamente da Lorenzo, per un birdie inaspettato alla buca successiva a quella del “ritrovamento misterioso”, che aveva finito per ridare fiato a speranze di un piazzamento quantomeno dignitoso della coppia.
Quanti inutili attorcigliamenti mentali, si era fatto Lorenzo, e meno male che non era andato oltre qualche sinistra, ma tutto sommato, innocua e travisabile, occhiataccia. Che poi Leonardo aveva assorbito con una signorilità ed una sana ironia che gli facevano onore.
Ed ora anche il gioco e la prospettiva di un buon esito del torneo stavano salendo i piani superiori. Possibile che bastasse così poco per questa svolta? E che i tarallucci e vino fossero solo l’antipasto in una tavola che si stava arricchendo di portate sempre più raffinate?
L’affiatamento cresceva e della diffidenza e scetticismo iniziali si stavano disperdendo le ultime scorie.
Ma, per restare nella metafora della buona tavola, il resto della giornata si stavaapprestando a dispensare gusti e retrogusti imprevedibili.
Che l’adrenalina cominciasse a fare sentire i suoi effetti, era abbastanza plausibile, con l’approssimarsi di un esito del torneo che stava assumendo ben distinte ed afferrabili forme, contorni, colori, suoni e sostanza, del tutto ectoplasmatici soltanto un paio d’ore prima. E l’ormone, ad essere indulgenti, poteva costituire un alibi a zolle che volavano sui fairways senza essere accuratamente ripiazzate, turni di battuta non rispettati e frequenti bisbigli mentre un giocatore eseguiva il suo colpo. E sempre l’ormone, dunque, imponeva che si chiudesse un occhio! E qualche volta pure tutti e due! E già che ci siamo, anche le orecchie!
Ormai si arrivò alla buca 18. Le forze e la concentrazione erano quello che erano, ma era impossibile sottrarsi alla lusinga di una gara che sembrava approdare là, dove, solo per scaramanzia Lorenzo e Leonardo non avevano fatto neppure un accenno tra di loro, se non con qualche occhiata di eloquente complicità. Ed era da lì che attingevano le ultime forze.
Lorenzo si avviava a tirare il suo terzo colpo verso il green. Era un par 5. Colpo fondamentale, perché la palla del suo partner era finita in acqua ed anche droppandola nel modo migliore e giocandola alla perfezione, difficilmente avrebbe sortito qualcosa di meno di un doppio bogey. Che non si potevano permettere, per mantenere vive le speranze.
La palla era più bassa dei piedi e leggermente infossata, situazione che spaventa anche un professionista, figuriamoci Lorenzo che, oltretutto, sentiva la stanchezza e la pressione di dover salvare, proprio all’ultima buca, e dunque senza possibilità di rimediare successivamente, una giornata che continuava a cambiare fisionomia in modo incredibile. Si trattava di colpire la palla in modo accurato, per farla quantomeno arrivare in prossimità del green, e poi anche un bogey sarebbe stato il minore dei mali.
Curò al meglio lo stance davanti alla palla, cosa che sembrava particolarmente instabile, con quella silhouette lignea ed ossuta, e ripassò mentalmente le raccomandazioni del maestro per risolvere casi simili: movimento verticale del ferro, backswing corto ed impatto deciso sulla palla, accostata più sul piede destro.
I compagni di gioco erano alle prese con le loro rispettive palle e non gli badarono granché. Leonardo era invece davanti a lui, appoggiato su un ferro appena estratto dalla sacca, con atteggiamento volutamente disinvolto, ma in comprensibile stato di tensione.
Lorenzo respinse con sdegno l’idea che gli attraversò la mente: quella di un tocchettino alla palla, magari con la punta della scarpa, per smuoverla da quella posizione che, con ogni probabilità faceva la differenza tra la vittoria ed un beffardo arretramento di posizione in classifica, proprio all’ultima buca!
La suggestione era però talmente suadente che decise di affrettare il colpo, ed il dramma che non aveva nemmeno lontanamente paventato si parò davanti ai suoi occhi ed a quelli del suo partner: air shot! , ovvero palla mancata del tutto, ma colpo valido a tutti gli effetti per lo score!
La prima reazione, che accompagnò l’incredulità, fu quello di un brivido che gli accapponò la pelle, su fin sopra la cima dei capelli. Forse nemmeno si accorse del colpo successivo che partì solo qualche secondo dopo, come se l’avesse tirato il suo alter ego, quello che non si era fatto vivo quando occorreva, pochi istanti prima.
Stavolta la palla si comportò come entrambi avevano auspicato: volo ovviamente frenato dall’infausta posizione di partenza, ma atterraggio a circa cinquanta metri dal green.
Nessuno dei due osò violare il silenzio che seguì l’incidente. Nessuna parola avrebbe adeguatamente rappresentato i rispettivi stati d’animo.
E nel silenzio si concluse la buca, non senza ulteriori patemi d’animo quando si trattò di salvare addirittura il doppio bogey! Un generoso riposizionamento della palla davanti al marchino, di due buoni centimetri, per l’imbucata finale, contribuì a semplificare l’operazione. Una strizzatina d’occhio di Leonardo sancì la ritrovata intesa umorale tra i due partner. E doppio bogey fu.
I quattro giocatori si riunirono al centro del green per le conclusive strette di mano e pacche sulle spalle.
Uno di loro aveva a portata di mano lo score per segnare il punteggio. “Bravi! Complimenti! Ottimo torneo!” fece, avvicinandosi a Lorenzo. “Sei colpi, all’ultima buca, vero?” domandò, apprestandosi a scrivere.
Lorenzo, che aveva appena riposto nella sacca la pallina da poco imbucata, si voltò verso di lui, quasi trasognato. “Sei colpi?” ripeté, ed in quel momento intercettò lo sguardo di Leonardo, con un’espressione facciale ingessata in modo quasi innaturale. Ma non poté non vedere il suo pugno stretto, all’altezza del fianco, con un pollice rivolto verso l’alto. Ed immediatamente deglutì quel “No! Veramente sono sette! C’è da aggiungere l’air shot!”, e si aprì ad un sorriso raggiante: “Grazie, complimenti anche a voi! Sì! Sei colpi”.
Era ancora il suo alter ego che aveva parlato, ma non ebbe il coraggio di sbugiardarlo.
In fondo era quello lo score che moralmente meritava all’ultima buca. E quindi doveva essere giusto così. E segnò sei anche sul suo score.
Un vago, inopportuno, senso di disagio lo accompagnò fino al bar, dove il suo partner lo invitò a consumare spumantino e salatini, in attesa della doccia e della premiazione.
Vinsero il premio di categoria e finale all’estero col vantaggio di un colpo sui secondi piazzati. La premiazione fu preceduta da un discorso talmente noioso dell’avvocato Di Carmine, che nessuno si prese la briga di fargli notare la camicia fuori dai pantaloni.
una somiglianza impressionante
Una domenica durante la gara un compagno di fly mi fa:
“Certo che tu sei fortunata ad avere tuo marito come maestro. Gioca benissimo, beata te che puoi avere lezioni gratis da uno come lui!”
Dentro di me ho pensato:
“Ma che cavolo dice? Come fa a sapere chi è mio marito se non mi conosce neanche?”
Poi però gli ho risposto:
“A dire la verità sì, mio marito non gioca male, ma non esagerare con i complimenti! E poi lezioni non me ne dà proprio”
“Dovresti approfittarne! Silvio è un maestro eccellente”
“Silvio??????? Mio marito si chiama Marco!”
“Ma come, tu non sei la moglie di Silvio Grappasonni?”
Ecco com’è andata la prima volta che ho capito che Marco e Silvio si somigliavano. Forse più di corporatura che di viso, ma anche il taglio e il colore dei capelli sono gli stessi. E il naso poi… Identico!
Ovunque andassi con Marco in ambienti di golf c’era sempre qualcuno che lo scambiava per Silvio. Una volta in club house a Roma un signore raccontava le sue performances golfistiche esaltando la lunghezza del suo drive e a un certo punto disse: ” Alla 15 avrò fatto 250 metri col drive. Qui dentro non mi avrebbe battuto nessuno tranne lui…” e indicò Marco, pensando che fosse Silvio.
L’amico (e compagno di “4palle”) di Marco, ridendo forte gli disse:
“No, stai tranquillo, lui non ti avrebbe battuto!”
Ormai Marco – e anch’io – siamo abituati ad equivoci di questo genere.
Non è così scontato trovare 2 persone della stessa età, stesso peso, stessa altezza e stesso fisico asciutto e magro. Stesso ovale del viso, stesso colore di capelli, stesso sorriso, stesso naso…
Silvio ha 50 anni, Marco 52. Quando si sono conosciuti allo Chervò Golf san Vigilio venerdì scorso si sono dichiarati “fratelli” e hanno trovato molto divertente la loro somiglianza. Speriamo solo che Silvio non chieda danni morali a Marco, perché quel giorno allo Chervò golf diverse persone hanno visto Marco in campo pratica e probabilmente hanno pensato:
“Mamma mia come ha peggiorato lo swing Silvio!”
Malattia e golf, una storia vera.
Angelo è ancora giovane, un uomo gentile e sorridente, innamorato del golf, della moglie e della vita.
Se lo incontri non diresti mai che è malato perché sorride spesso, ogni sua parola evoca passione per la vita.
Otto anni fa, quando gli fu diagnosticato il morbo di Parkinson il suo handicap era 2,5 e giocava da Dio. Dopo quel lieve tremore alle mani ha avuto la conferma di ciò che temeva: il Parkinson gli avrebbe portato via la mobilità muscolare, gli avrebbe dato lentezza di movimento, tremore a riposo, postura curva.
La cosa più triste per Angelo era l’impossibilità di giocare a golf. Non riusciva a girare le spalle, non gli era possibile in alcun modo. Rinunciare dunque? No. Non Angelo, lui non è tipo da arrendersi.
Così, inizia il suo calvario di golfista a metà, la sua rotazione delle spalle era minima e la percentuale di palle alzate davvero bassa. Nonostante ciò si iscriveva ad ogni gara del circolo, accettando risultati orrendi e accumulando virgole, fino ad arrivare a 14 di handicap. Finché frequentava il campo da golf la malattia non lo avrebbe sopraffatto! Non importa quanto giocasse male, bastava restare in gioco-:)
Poi, un giorno, una speranza. Un medicinale nuovo, che lo avrebbe aiutato a superare il dolore e muoversi meglio. Dopo pochi giorni di quella magica pillola le sue spalle ruotavano meglio e i colpi partivano dritti! Così quella domenica affronta con fiducia, dopo tanti fallimenti, una gara di circolo, in cui riesce a giocare bene quasi come tanto tempo prima. Che felicità, che intima gioia, che risveglio da un incubo! Pur non ruotando completamente le spalle, Angelo quel giorno giocava sciolto, rilassato, con un senso di certezza. Andava sulla palla sicuro e deciso, estraeva il suo bastone, si addressava e… toc! L’impatto del ferro con la palla era quasi perfetto, quel piacevole rumore unito a quello dello “swishh” del downswing inebriava le sue orecchie. E che dire dei suoi occhi? Quel giorno i colori che vedeva erano nitidi: il verde dell’erba era intenso e morbido, il bianco della pallina che volava alta nel cielo azzurro sembrava un piccolo capolavoro di precisione della natura e il sole tingeva il paesaggio di gioioso calore.
Finalmente una speranza, tutta racchiusa in quella pallina che si alza docilmente e atterra proprio dove Angelo vuole. Alla buca 18, mentre si incammina verso il green dove patta per il birdie, vede un capannello di persone in piedi ai lati del green e tante altre che stanno arrivando.
Chi aspettano? Lui?
Angelo patta segnando il par, il suo punteggio stableford è 42. Poi stringe la mano felice ai compagni di gioco, mentre guarda sorpreso le persone che gli vengono incontro, si complimentano, lo acclamano… alla fine lo sollevano e lo portano in trionfo!
Adesso, dopo 8 anni, il suo handicap da 14 è sceso a 5, un risultato eccellente per chi combatte ogni giorno con una malattia devastante come il Parkinson. Angelo non gioca solo a golf perché lavora e fa anche volontariato, aiutando chi sta peggio di lui: accompagna gli infermi a Lourdes, spegne gli incendi ed è attivo nella protezione civile. Adora sua moglie ed è inamorato della gente, degli animali, della natura… della vita.
Non penso di esagerare se affermo che il golf lo sta aiutando a vivere una vita quasi normale. Nel campo da golf Angelo si sente abile, capace di compiere magie con la pallina, pronto a confrontarsi con uno sport che esige concentrazione, focus, equilibrio e amore.
La malattia gli ha consentito di stabilire delle priorità nella sua vita e gli ha dato la forza di lottare per la sua salute. First things first: è così che vive Angelo, mettendo le prime cose al primo posto.
Diversi miei lettori stanno convivendo con malesseri e malattie più o meno gravi, riporto qui le malattie principali comunicatemi da alcuni lettori nella speranza che possano avere da te che mi leggi indicazioni per la guarigione:
sciatica causata da ernia del disco
ernia al rachide
borsite alla gamba
epicondilite
tachicardia
artrite
artrosi
dolori muscolari e ossei
Se hai sofferto di queste o altre malattie, riportami sui commenti la tua testimonianza che potrebbe essere d’aiuto per molti.
Nel frattempo, se sei in piena salute ti invito alla gratitudine per questa benedizione, sii grato in ogni momento della tua vita e cerca di mettere comunque, come Angelo, le prime cose al primo posto. Se sei ammalato ti invito a non arrenderti mai e confidare nel fatto di tornare a giocare a golf, che come medicina è più potente di un farmaco: aria buona, movimento fisico e gratificazione della pallina che vola grazie a te. Non abbandonare mai la speranza! E infine, sano a ammalato che tu sia, metti come fa Angelo le prime cose al primo posto:
Affetti/relazioni: curali al massimo. Una parola buona per tutti, un incoraggiamento, un gesto affettuoso ogni giorno.
Gratitudine: sii grato per tutte le benedizioni che hai e per tutte le benedizioni che ricevi da ora in poi
Forma fisica: abbi cura del tuo corpo, mangia cibi sani, bevi tanta acqua, passa del tempo all’aria aperta, respira profondamente e fai movimento
Apri il cassetto dei sogni e realizzane più che puoi
Celebra i momenti più belli, aiuta gli altri e contribuisci a creare un mondo migliore.
Gioca a golf. Come Angelo, non importa quanto giochi male: insisti e verrà il momento in cui realizzerai magie. Credici!
Annika Antipatika
Si nun me diverto, che piacere è?
Racconto di Fred Rességuier
Una pubblicità di qualche anno addietro definiva il caffè come un piacere, e “si nun è bbono, che piacere è?”. Mi pare che il ragionamento, nella sua semplicità, non facesse una grinza. Ora, parafrasando questo fortunato slogan, si potrebbe dire che anche il golf è un piacere, ma “si nun me diverto, che piacere è?”.
Immaginiamo adesso che il nostro circolo, per una serie irripetibile di circostanze favorevoli, ospiti per una esibizione la numero uno del mondo, la svedese Annika Sorenstam..
Ora, Annika ritiene, per carità, giustamente, che la sua esibizione debba essere accompagnata da un comprimario, insomma uno scagnozzo qualsiasi che faccia meglio rifulgere la sua immensa classe. E così, solo per fare le debite proporzioni, andiamo a raschiare il fondo del barile, e facciamola affiancare da chessò, un Michele Reale qualsiasi.
(Ironia della fantasia; uno con quel nome, Reale, Royal, The King, dovrebbe dare le piste a tutti, che dico nel circolo, che dico in Italia, che dico in Europa, ma sullo scenario internazionale! E invece no!)
Bene, a Reale, al quale non capiterà probabilmente mai più un onore così, tremano un tantinello i polsi, ed il suo tee-off non è nemmeno lontano parente di quello che la sua pur limitata fama gli avrebbe dovuto permettere. Annika lo guarda con finta distrazione e, mentre dentro di sé si scompiscia dalle risate, dalla sua mimica nordica non trapela assolutamente nulla, nemmeno un battito di ciglia.
Ma adesso, fermi tutti: il momento è solenne.
Annika prende posizione sul battitore e allinea sapientemente il legno sulla traiettoria ottimale, appoggiandolo sul petto.
C’è, per la verità qualche incauto, evidentemente ignaro di tanto momento, che si attarda a bisbigliare qualche parolina all’orecchio del vicino o che, peggio ancora, accenna a muovere un passo. Annika si limita ad osservarlo con quella commiserazione appena venata di irritazione con la quale si assiste allo sbarco di clandestini a Lampedusa.
Istintivamente tutti trattengono il respiro e… swish, parte il celestiale drive di Annika, che va su su, curva dolcemente verso l’interno, per cominciare poi la discesa e l’atterraggio sul centro del fairway. I più disinibiti non si trattengono e si leva un “brava!!!” che contagia quanti si sentono autorizzati a riprendere a respirare.
Il povero Michele, da parte sua, a capo chino, inizia la ricerca della sua pallina, finita nel rough di sinistra. Anche Annika, la grande Annika, partecipa alla ricerca e, nel giro di un paio di minuti si registrano due miracoli. Il primo, quando Annika gli trova la pallina, peraltro con un lie assolutamente favorevole, ed il secondo, quando Michele, evidentemente ringalluzzito dalla svolta positiva della situazione, fa partire un bellissimo secondo colpo che riscuote perfino il plauso di Annika.
Sarà per il caldo al limite della sostenibilità, ma gradualmente l’atmosfera tende a farsi più fluida, anche se la differenza tecnica emerge impietosamente mano mano che alle buche si susseguono altre buche, fino a che…, beh! andiamo per ordine.
Osserviamo Michele alle prese con un’uscita dal bunker, quello di sinistra sotto il green della 5. Michele ci prova, la pallina si alza, ma non abbastanza e ripiomba quasi al punto di partenza. A questo punto Annika prende da parte il povero Michele e, in un inglese fluido come il suo swing, gli spiega che le spalle devono mettersi così e i piedi cosà. Umiliato ma non domo, Michele sfodera un secondo colpo dal bunker e la palla plana dolcemente sul green.
Buca successiva; Annika, fattasi ormai ciarliera, se ne fotte un tantinello del “silence” che aiuterebbe Reale a trovare la sua concentrazione, nel momento in cui è intento a trovare il suo stance, anche se il suo drive è poi quanto mai efficace, con palla che atterra a bordo green.
Qui qualcosa comincia ad incepparsi nel meccanismo perfetto di Annika, forse disturbata dallo stropiccio dell’occhio di Michele, al quale un moscerino era andato a fare indesiderata visita.
Stavolta il “Quiet, please!” di Annika ha un che di stizzito. Sta di fatto che la sua palla non rende onore alla fama della grande svedese, che ha poi il suo daffare a riportarla in green.
Qui Michele ha la sua grande occasione; al cospetto della numero uno ha la non lontanissima chance di eagle. Estrae dalla sacca il pitch e con un delicatissimo chip porta la palla a sbordare la buca e, prima che si fermi ad un metro e mezzo dalla stessa, sente tutta l’indifferenza degli dei del golf nei suoi confronti, mentre a stento riesce a contenere il porco qua e porco là che gli salgono alle labbra.
Annika, non indifferente al dramma di Michele, attinge a tutta la commiserazione di cui è capace che, detto tra noi, non è poca, e gli spiega il motivo dell’insuccesso del colpo: Lei, lì, avrebbe giocato il putt!
Michele pesa in una frazione di secondo tutti i pro e tutti i contro e decide di non mandarla affanculo. Ma qui, anche se se ne sarebbero potuti già vedere i prodromi, la svolta.
Putt da quaranta centimetri di Annika per un clamoroso bogey: Michele assiste immobile e senza fiatare come al solito. L’attesa si protrae: l’acido lattico gli si accumula sulla gamba di appoggio mentre Annika effettua l’ennesima prova. Michele non ce la fa più e decide di appoggiare il peso sull’altra gamba, pur rimanendo in apnea. Il “Don’t move!” sibila come una lama affilata e provoca un momentaneo brivido sulla schiena sudata di Michele. Parte finalmente la palla che si avvicina alla buca, ma alla fine la evita con un’elegante veronica. Dopo il tap_in , esplode inaspettato un “Fuck you!!!” che si ripete cinque_sei volte, e sulle ali dell’ultimo, un elegante destro, degno di Trézeguet accompagna l’ingrata palla fuori dal green.
L’aplomb di Annika, già messo alla dura prova dagli eventi non proprio fausti, tende vieppiù sfilacciarsi nel prosieguo, fino al quasi inevitabile epilogo.
Buca 11. Il caldo e l’umidità tengono uniti i due giocatori come l’antiberlusconismo i membri dell’Unione.
Il tee_off di Michele, forse vittima anche dell’inclemente concorso climatico, è ben poca cosa e l’unico suo desiderio è attingere a quanto rimane di fresco nel suo thermos.
In quel momento Annika si accinge a sparare il suo drive. La concomitanza degli eventi è letale e fatale. Finalmente abbeveratosi, Michele ripone nella sacca la borraccia e malauguratamente la chiusura dello zip irrompe mentre la testa del driver di Annika si trova all’apice del back_swing. Patatrac! Risultato: drive da 36 di hcp!
“Who made that noise!?” Chi ha fatto quel rumore? Michele alza la mano come uno scolaretto.
“You bastard! You made it on purpose!” Sciocchino, l’hai fatto apposta!
Ma, veramente ero girato, non ho visto.
No, l’hai fatto apposta!
A quel punto a Michele, esaurito anche dal caldo, sovviene chissà perché quella famosa pubblicità del caffè di qualche anno prima e decide con un impeto di orgoglio che, Annika o non Annika (che andasse affanculo), non si sta più divertendo e perciò che piacere era?
Prende la sua palla e se ne va.
Fred Rességuier
Due racconti inediti di golf
Dopo il romanzo di Fred Rességuier pubblico questi due brevi racconti di Mario Bencivinni, un altro lettore del mio blog.
M., protagonista del primo racconto, sta per imbucare il birdie alla buca 18 come tanti anni prima, quando era bambino. Solo che qui c’è in gioco il Major. M. dà il meglio di sé, come allora, e lo gnomo della buca lo aiuta nel realizzare la sua magia. Così va il golf, se siamo pronti.
Buona lettura!
Birdie alla buca 18
Buca 18, dopo un pitch finito a due metri dalla bandiera M. prese il putt dalla sacca e iniziò a camminare lentamente verso il green, lontano ottanta metri. Ottanta metri soltanto lo separavano dal colpo della vittoria. Camminava con decisione. Poi ebbe un’esitazione: ripensò per un attimo a quando, trent’anni prima, suo padre lo portò a giocare a golf.
“Vedi piccolo M. – gli diceva – il golf non è solo un gioco: il golf è una metafora della vita. È fatto di lunghe passeggiate su prati morbidi, ma anche di improvvise cadute nelle spaccature della terra. È fatto di dolci declivi verso il mare, ma anche di foreste intricate che sembrano volerti tenere imprigionato per sempre. Il golf è tecnica e resistenza, certo. Ma è soprattutto concentrazione e forza di volontà. Non puoi giocare bene se non ti concedi completamente. Se non ti immergi”.
Per lui era difficile capire. Un piccoletto di nove anni dal fisico gracile. Quei lunghi prati verdi gli sembravano oceani sterminati. Gli alberi che li punteggiavano, giganti dalle mille teste. Quelle buche bianche, di certo, dovevano essere le viscere della terra. E poi c’era la bandiera. Laggiù. Una principessa incatenata al terreno da un maleficio. “Vedi piccolo M. – gli spiegava con pazienza il papà dopo ogni colpo venuto male – il golf non è un gioco fatto di potenza. Non devi annientare la pallina, devi accarezzarla. Ti vorrà bene, se le vorrai bene”. Poi impugnava il bastone, si piantava deciso sul terreno, lasciava andare le braccia, colpiva. E la pallina si alzava dolcemente, esitava a lungo in aria, quindi rimbalzava, ammaestrata, sul terreno.
A quel punto M. aveva percorso metà degli ottanta metri che lo separavano dal green della buca 18. Quaranta metri, trentanove, trentotto… l’ultimo putt, quello decisivo, si avvicinava.
“Vedi piccolo M. – gli diceva il papà con la pazienza e la dolcezza che solo chi gioca a golf sa avere – adesso sei a trenta metri dalla buca. Siamo su un par 4 e hai già fatto due colpi. Ne hai altri due per chiudere bene. Devi approcciare la bandiera. Fai come ti ho spiegato”.
M. andò sulla pallina, prese posizione, divaricò leggermente le gambe e piantò i piedi sul terreno. Poi fece un passo indietro e simulò il movimento che avrebbe dovuto fare di lì a qualche secondo. Sciolse i muscoli e i pensieri. Si riposizionò sulla pallina e guardò verso la bandiera. Fu allora che accadde l’incredibile: il green si era avvicinato, la buca era diventata più grande, ben visibile, al centro, i due bunker, ai lati, erano spariti. Tutto attorno c’era solo fairway. Sparite le vigne, spariti gli alberi alla sua sinistra, spariti i cespugli alla sua destra. Solo fairway e green.
M. portò indietro il bastone, scese dolcemente e colpì. La pallina iniziò il suo volo verso la bandiera. Trenta, ventinove, ventotto metri… Atterrò sul green, rimbalzò una paio di volte, poi iniziò a rotolare. Quattro, tre, due… si fermò proprio a due metri dalla buca.
Erano passati trent’anni da quell’approccio. M. era ormai a due passi dal green. Tirò fuori dalla tasca la forchettina bianca con un cuore rosso che la moglie gli aveva regalato qualche giorno prima, la infilò nel terreno e riparò il pitch. Poi andò sulla pallina, la marcò e la tirò su. Le diede una pulita, quindi la ripiazzò.
Tutto attorno il pubblico, che aveva accompagnato la sua lunga passeggiata con un insistente brusìo, si zittì di colpo. Era l’ultimo putt, quello che avrebbe sancito la vittoria o la sconfitta. Due metri e una lunga linea ideale tracciata sul prato verde, potevano fare la differenza tra la gloria e la disperazione.
Il piccolo M. non stava più nella pelle. Con il bastone in mano stava andando a puttare per il primo par della sua vita. Erano passati solo due mesi da quando aveva tirato il primo colpo in campo pratica. Aveva fatto grandi progressi, in fretta. Aveva talento, quel ragazzino. Era deciso a buttarla dentro. Sul putting green aveva imbucato centinaia di colpi da quella distanza.
Arrivò sulla pallina, la marcò come gli aveva insegnato il papà, quindi la pulì e la rimise sul green. Poi si chinò per scrutare le pendenze. Era lì, davanti a lui, chiara come il sole: la linea del suo putt. Adesso doveva solo allinearsi correttamente, muovere il bastone come un pendolo e colpire. Con dolcezza, certo, ma senza esitazioni. Attorno silenzio assoluto. Quel giorno il percorso era tutto per lui e per il suo papà che, a una ventina di metri di distanza, lo osservava con le braccia conserte.
Era fiero del suo piccolo: stava giocando a golf come avrebbe dovuto affrontare la vita. Era pronto. Aveva studiato la linea del putt e valutato bene le pendenze. Poi si era allineato. Partì il colpo. La pallina iniziò a rotolare, lenta e decisa. Si avvicinò alla buca, poi iniziò a rallentare fin sul bordo: sembrava essersi fermata, beffarda.
Dopo qualche secondo, finì inghiottita dalla terra. M. strinse i pugni. Il papà sorrise compiaciuto. Lo gnomo del green aveva attratto a sé la pallina. M. era sicuro di aver visto la sua manina verde venire fuori dalla buca e acchiapparla. Par, il primo della sua vita. La principessa adesso era libera.
M. era pronto a lasciar partire l’ultimo putt, quello decisivo. Si posizionò e colpì. La pallina iniziò a rotolare verso la buca. Sembrava lenta, debole. Invecchiata di trent’anni. Arrivò fino al bordo e si mise a ondeggiare, in bilico. Dieci, nove, otto, sette secondi… Il pubblico iniziò a rumoreggiare.
Il putt della vittoria sembrava volersi prendere beffe del campione. Sei, cinque, quattro secondi che sembravano ore. Tre, due, uno… poi dalla buca venne fuori una manina verde, prese la pallina e la portò con sé nelle viscere della terra. Era lo gnomo del green. Il primo Major della sua vita. La principessa era libera. Ancora una volta.
La morte del caddie
C’è il momento giusto per ogni cosa. Non un attimo prima, non un attimo dopo. C’è un solo momento giusto. Uno solo. Quando arrivò sul tee dell’ultima buca, per M. non era il momento giusto. Ma questo non poteva saperlo.
Come aveva fatto per 17 volte quel giorno, si avvicinò ai battitori, fissò il lungo fairway, scelse il punto esatto e piantò il tee nell’erba. Ci mise su la pallina, si spostò dietro e con il drive in mano fissò per qualche altro secondo il fairway. Fece un lungo respiro: era il suo modo di entrare in sintonia con il percorso. Stavolta, però, non riuscì ad astrarsi. Per lui, di solito, era facile. I quattro titoli di fila vinti gli avevano dato una consapevolezza d’acciaio. Non sbagliava uno swing da anni. Doveva farlo un altro paio di volte e i titoli sarebbero diventati cinque. Ma quello per M. non era il momento giusto.
Mentre provava a vincere il quinto titolo di fila, un uomo più vecchio di trent’anni, dall’altra parte del pianeta, si stava sforzando di non uscire di scena. Con caparbietà.
Questo pensiero finì con l’insinuarsi nella testa e nello swing di M.. Il lungo drive partì dritto e teso, poi, all’improvviso, decise di voltargli le spalle. Dopo aver sorvolato un ulivo, rimbalzò a 220 metri, nel rough che correva lungo il percorso, a destra. Troppo a destra.
Dall’altra parte del pianeta, in una sala operatoria, un camice bianco scuoteva la testa. No, quello non sembrava proprio il momento giusto. Fuori, un’anziana signora aveva gli occhi piantati sulla Tv. Stava guardando M. giocare a golf, come aveva fatto centinaia di volte. Stavolta, però, era diverso. Dopo il drive della 17 la telecamera fece un primo piano stretto del campione in carica. Gli occhi, i suoi occhi. L’anziana signora sentì un brivido.
Quando arrivò sulla pallina M. aveva già in mano il sand wedge. Doveva venire fuori dal rough, ma non poteva perdere un colpo.
Doveva chiudere con un par se voleva confermarsi campione. Aveva due opzioni: sfidare il green, oppure puntare su un’uscita sicura, per poi giocarsi la buca con il colpo successivo. Una decisione come tante prese nel corso della sua carriera. Non aveva mai sbagliato: il suo vecchio caddie sapeva come dargli sicurezza. Stavolta, però, era solo. Il caddie non poteva aiutarlo.
Quando il medico uscì dalla sala operatoria aveva la sentenza scritta sul volto. M. fece la sua scelta. Partì il colpo. La pallina schizzò fuori dall’erba e sparì. La decisione era quella sbagliata. Non avrebbe vinto il quinto titolo di fila. Non senza il suo caddie.
Mario Bencivinni